Un luogo, quello delle parole e dei silenzi. Due anime: leggere, ironiche, in difficoltà. Le sbirciamo mentre il sorriso danza con la commozione, in fondo ci appartengono e in esse, ci riconosciamo. Forse.
C’è un paradosso in Giorni Felici (e in tutta l’opera di Beckett): la limitazione delle nostre capacità che quasi confina nell’infermità dei corpi, nella difficoltà di vivere, nell’affanno che non è mai incapacità individuale, ma incongruenza di tutta un’umanità e allo stesso tempo… una possibilità di riscatto: la debolezza è fonte di investigazione della vita.
Chi eravamo? Cosa siamo?
Raccontare una distanza – quella di un uomo e di una donna – fatta di silenzi, azioni, parole rotte, lunghi discorsi che attendono risposte. Risposte che non arrivano nell’immediato.
Due fragilità che, a loro modo, si amano ancora ma che non sanno più come dirselo. Il tempo che, goccia dopo goccia, ha logorato il ricordo, la memoria.
Un uomo, che per non morire, vive in un suo mondo chiuso in scatole. Una donna, che per non lasciarsi andare, parla senza tregua per riempire i vuoti abissali, agisce in continuazione per paura del silenzio, fa domande, urla la vita. Tutto è davvero perso?
Ironia e leggerezza sono le componenti primarie di questo lavoro; malinconia e punte di positività accompagnano questi personaggi nei quali, un poco, forse anche solo in brevi attimi di vita,ci riconosciamo.
Il lavoro, liberamente ispirato a “Giorni Felici” di S.Beckett, mantiene l’ossatura della drammaturgia originale, ma apre anche ad altri riferimenti dell’universo beckettiano, a “L’ultimo nastro” di Krapp in particolar modo; un piccolo cammino dentro l’immaginario di un grande autore contemporaneo.